<< Ma io non ho neanche il passaporto >> mi aveva detto Diego guardandomi negli occhi.
Stavamo imparando a conoscerci, sapevamo poco l’uno dell’altra, non avevamo neanche idea di dove ci avrebbe realmente portato la nostra storia.
Ma il primo viaggio insieme, quello sì, ormai aveva un nome.
Eravamo partiti parlando della Spagna. Poi dell’Austria. Poi di qualche altra meta che prevedeva probabilmente un decimo delle ore in volo che da lì a poco avremmo affrontato.
<< Perché non Cuba? >> avevo suggerito. Così. Su due piedi.
Probabilmente senza crederci realmente.
Lavoravamo insieme nel ristorante della sua famiglia e i giorni a disposizione per viaggiare non erano molti. Eppure, dopo un piccolo periodo di monitoraggio, i voli per L’Avana sono finiti proprio lì, nella nostra casella email.
Sono passati sette anni da quel viaggio e l’unica testimonianza che avevamo prima della partenza era quella di mio padre che aveva raggiunto la isla per fare del volontariato. Lo stesso padre che ci aveva quasi costretti a dormire nelle casas particulares.
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E aveva ragione.
Siamo arrivati a L’Avana alle 22:30 di un giorno di settembre, nel pieno della stagione dei monsoni.
Non dimenticherò mai la sensazione dell’afa sul viso nel momento in cui sono uscita dall’aeroporto. Un buffo tassista con una canottiera bianca macchiata qua e là ci ha condotti a Calle Obispo, teneva il gomito fuori dal finestrino e chiacchierava di cose incomprensibili.
Sulla porta ad attenderci abbiamo trovato Roberto, il proprietario di casa. Quella stessa sera abbiamo conosciuto anche Zoraida e nonna Ester. Due giorni dopo le abbiamo salutate piangendo.
E quella stessa sera, probabilmente, il viaggio ha messo radici dentro di noi.
Perché si deve pur iniziare da qualche parte, no?
Abbiamo trascorso a Cuba poco più di dieci giorni, senza un piano prestabilito, lasciandoci cullare da quella sana e irrefrenabile voglia di scoperta che farebbe sicuramente a cazzotti con l’attuale bisogno di dover sempre immortalare tutto. A Cuba non c’era neanche internet.
Siamo riusciti a connetterci solo dopo diversi giorni da un computer che cadeva a pezzi e per il quale Maria, la proprietaria della casa di Trinidad, scroccava la connessione ad un medico che viveva al piano di sopra. Ricordo che scrissi su Facebook una sola frase: Te quiero, Cuba.
Era vero. L’amavo tantissimo.
Amavo la possibilità di starmene in veranda con una cerveza o un mojito tra le mani a chiacchierare della vita locale o a leggere un libro, su quei dondoli arrugginiti e dalle fantasie improbabili che sembravano letteralmente tirate fuori da un film.
Un film horror, sia chiaro.
Amavo sedermi a gambe incrociate nelle piazze e osservare la gente ballare sempre e comunque. Ovunque.
Amavo scegliere in quale ristorante mangiare affidandomi al mio istinto o, più di frequente, cercando di notare dove si concentrasse la maggiore affluenza di gente del posto.
Amavo aver dimenticato cosa significasse truccarsi.
Amavo non sapere che ore fossero, che giorno della settimana stessimo vivendo.
Amavo la mia guida cartacea, che mi sembrava quasi una Bibbia. La detentrice del sapere assoluto. L’unica arma per non perderci neanche una delle bellezze che quel paese aveva da offrire.
Un giorno abbiamo noleggiato un’auto e siamo partiti verso Varadero. Lì siamo rimasti poco a dir la verità, quel mondo troppo patinato non ci attirava, ma non importa: quando hai le quattro ruote -o magari due, per chi preferisce- e l’entusiasmo, sei in ogni caso la persona più ricca e felice del mondo. E noi, davanti ai nostri occhi, avevamo un mondo da scoprire e calpestare e assaggiare. Non sapevamo ancora che i viaggi on the road sarebbero diventati parte integrante della nostra vita.
Probabilmente, con l’esperienza acquisita negli anni, di cose belle da vedere ne avremmo trovate molte di più. Probabilmente avremmo perso meno tempo negli spostamenti, avremmo mangiato in ristoranti migliori. In quelli che selezioni a colpo sicuro, complici le innumerevoli recensioni presenti online.
A volte mi manca quella parte di me, quella viaggiatrice tanto acerba quanto assetata di vita. Quella che non aveva di certo bisogno di controllare se la tabella di marcia fosse stata rispettata. Quella che, una tabella di marcia, neanche sapeva cosa fosse.
Forse dovremmo tutti, ogni tanto, fare un salto indietro.
Ma perché ti ho raccontato questa storia?
Perché è stato il primo ricordo che mi è tornato in mente quando mi sono imbattuta nelle avventure di Ale, Davide e Fede, i protagonisti della serie podcast di Verti, Sbaglio Strada e Cambio Vita. Tre sconosciuti che si ritrovano ad affrontare un on the road fatto di musica e peripezie.
Se anche tu vuoi saltare a bordo del loro pulmino e scoprire come inizia il loro viaggio, puoi farlo ascoltando il primo podcast a questo link.
Quello che vivono loro, è esattamente ciò che augurerei alla me di adesso, a quella persona che ha tantissima esperienza di più rispetto alla ventunenne che non sapeva dove cambiare i soldi a Cuba. Le augurerei di recuperare le vecchie maniere, di buttare via il telefono. Di darsi la possibilità di sbagliare strada e ristorante, che se per una volta si mangia male non succede mica nulla di grave.