Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano

Utilizzo le parole di Venditti perché in questi giorni mi è presa una nostalgia canaglia.
E’ partita da prima di rimettere piede negli Stati Uniti e pensavo che, una volta tornata a casa, sarei riuscita ad ammortizzarla.
Che stupida.
Come si fa ad ordinare al cuore di smettere di andare nella direzione che dice lui?

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La verità è che il viaggio in Colorado ha rafforzato quello che sentivo prima di partire: voglio tornare a New York. Anche solo per un weekend.
Anche solo prendere una boccata di aria da quella giungla urbana.
A Vail ho incontrato di nuovo ma troppo velocemente i simboli americani -i motel, i fast food, le strade, i caffettoni- e non ho avuto il tempo di afferrarli, ma li ho visti passarmi sotto agli occhi così, come il primo assaggio di un dolce che ci viene tolto da sotto al naso quando siamo solo all’inizio.

E’ assurdo come alcune città ci restino dentro, come ci spingano a preferirle a mete ancora inesplorate. Mi capita spesso: New York, Londra, Amsterdam.
Ogni tanto ho bisogno di poggiare il piedino per sentirmi a casa, ho bisogno di riconoscere i miei angoli preferiti, di prendere il caffè in quel bar che mi piace tanto.

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Ho bisogno, in questo momento, di abbandonarmi alle luci di Times Square, di urlare dalla sommità dell’Empire State Building, di fare un selfie con Lady Liberty, di addentare l’hot dog del carrettino rosso ai piedi del Rockefeller Center, di osservare il fumo uscire dai tombini di Greenwich Village, di gironzolare tra i negozi di Soho e nel caos di Chinatown, per poi ritrovarmi immersa dalle canzoni nostrane più tipiche nei vicoli di Little Italy.

Ho bisogno di riabbracciare i miei parenti durante le solite rimpatriate nel New Jersey, di fittare un appartamento in una zona più local, di fare la spesa e cucinare e apparecchiare e guardare la tv. Di andare a correre a Central Park perdendo la cognizione del tempo e dello spazio.
Di truccarmi per salire su un ascensore diretto al millemillesimo piano di un grattacielo che nasconde uno skybar.

Ho bisogno di impiegare un numero infinito di minuti per scegliere quale cupcake prendere, di ammirare il tramonto dal Ponte di Brooklyn, di gironzolare senza una meta alla scoperta dei quartieri meno battuti, di prendere una macchina e visitare i dintorni, di sbattere contro quel puzzle multietnico di persone che si muovono come trottole, spinte dalla frenesia di una quotidianità vorace.

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Ho bisogno di avere tutto a portata di mano, di meravigliarmi per la facilità con cui vengono fatte alcune cose, di tirare fuori gli occhi delle cose belle, quelle che profumano di casa e novità allo stesso tempo.

In un vecchio post scrivevo: “New York è una di quelle metropoli che cambiano faccia ogni giorno e forse è questo il motivo per il quale io la ricordavo diversa. Non migliore o peggiore, semplicemente diversa.
Anche perchè credo che non sia possibile definirla bella o brutta: è caotica, a tratti troppo luminosa e forse un po’ plastica. Eppure per me rimane la città più bella del mondo.”
Ho bisogno di riscoprirla ancora, di abbracciarla e sussurrarle che mi è mancata.
Ho bisogno di giocare con le sue contraddizioni, di litigare con il suo caos.
E poi ho bisogno di ripensare alla magia più pura, di innamorarmi di lei.
Di nuovo, ma come sempre.

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About

Marika Laurelli. Travel blogger autrice di Gate 309, Web Writer e Storyteller Appassionata di tutto ciò che riguarda i social network e nutre un amore smisurato per il mondo, l'avventura, la scoperta.

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