Ci sono cose che non si raccontano.
So che ora le mie amiche rideranno, perché ogni volta che torno da un viaggio le bombardo di parole e informazioni.
Sono ansiosa di fissare ogni ricordo, di condividere foto ed esperienze.
Comunque dicevo: ci sono cose che non si raccontano.
Non perché celino qualcosa di sbagliato, semplicemente perché quando torni da un viaggio e incroci le persone della tua quotidianità e ti chiedono “Come è andata?” all’improvviso si fa tutto buio, il cervello si appanna e spesso l’unica parola che riesci a pronunciare è benissimo.
Si dai, ci provi pure a formulare una risposta, come se davvero bastassero tutte le parole del mondo per spiegare cosa hai provato.
E’ che hai bisogno di fare mente locale, cercando di riavvolgere il nastro e selezionare ciò che potrebbe interessare a chi ti sta ascoltando: i monumenti più famosi, le situazioni più strambe o divertenti, le metropoli più conosciute.
Di cose da raccontare ne avresti tante (e molte le racconti davvero agli amici più stretti) ma spesso le domande ti colgono impreparato, quindi ti ritrovi a chiudere a chiave nel cuore le giuste risposte per poi riversarle altrove, perché hai bisogno di tempo per metabolizzare, buttare giù qualche riga, correggerla se necessario.
Io le riverso qui.
Quelli che non si raccontano sono solitamente gli aspetti all’apparenza più futili, quelli che non danno quel qualcosa in più all’interlocutore ma che delineano, invece, l’andamento della tua esperienza.
Il mio viaggio in America è stato un mosaico di piccole cose, che se mi affaccio sui ricordi mi viene il vuoto e vorrei incatenarli tutti per non farli mai scivolare via.
Per non permettere ai contorni di dissolversi.
Il primo tassello del mosaico su cui poso lo sguardo è forse quello più importante.
Il contatto umano.
Se provassi a contare tutte le persone con le quali mi sono relazionata credo non riuscirei a finire prima di una settimana.
Ogni volta che ci siamo persi sulla Route 66 -ed è successo molto spesso- abbiamo sempre trovato qualcuno pronto ad aiutarci, a tracciare sulla nostra cartina linee immaginarie, a chiamare a sua volta qualcuno più esperto della zona.
Bastava entrare nei piccoli negozi per riconoscere i sorrisi di chi è pronto a tempestarti di domande e a questo proposito mi viene in mente Oleta, l’anziana proprietaria di un negozio di souvenirs a Erick, in Oklahoma.
Ci siamo imbattuti in Oleta letteralmente per caso, cercando un altro negozio. Non appena siamo entrati le si sono illuminati gli occhi e quando , dopo le millemila domande di rito sulla nostra provenienza e il nostro percorso, le abbiamo chiesto se avesse souvenirs sulla Route 66 lei ha scosso la testa e si è mortificata ma poi è corsa a prendere una calamita di Erick dicendo “Questo è un regalo, così vi ricorderete per sempre di me”.
Dopo varie insistenze la calamita l’abbiamo pagata, ma quando siamo risaliti in macchina mentre lei ci salutava con la manina sentivamo di aver comunque ricevuto un regalo da Oleta, molto più grande di una calamita.
Guardo meglio nel tassello del contatto umano e compare la figura di un uomo di colore, con il viso dolce e parecchi denti persi. Si chiama George, è il nostro vicino di casa a Exuma. Quando George è venuto a prenderci nel minuscolo aeroporto dell’isola ci siamo immediatamente resi conto del suo debolissimo udito e di una cataratta che lo ha reso praticamente cieco, non impedendogli però di scorrazzare ovunque con la sua jeep e di mantenere vivo il suo entusiasmo.
Osservando il mare gli ho detto “George, la tua terra è magnifica” e lui mi ha abbracciata forte.
“Non è la mia terra, è la nostra. Qui siete a casa.”
E poi ci sono quelle persone che vengono dall’Italia come te e che si imbattono nel tuo cammino quasi per caso in un minuscolo paesino della Route 66 e poi finisci per essere triste quando devi salutarle parecchi chilometri dopo, con la promessa di rivedervi presto.
Succede che scopri un feeling unico e ti ritrovi a trascorrere sulla strip di Las Vegas una delle serate più belle della tua vita, ma questa è un’altra storia.
Il secondo tassello del mosaico è occupato dalla strada, protagonista assoluta.
Credo di non esagerare se affermo di aver trascorso più tempo dentro l’auto che fuori. Chi ama i viaggi on the road saprà benissimo a cosa mi riferisco quando parlo di magia, quella che senti nascerti dentro quando le ruote toccano un asfalto che hai sempre visto solo e soltanto da lontano.
La strada è una continua sorpresa, un susseguirsi di soste programmate e non. E’ l’arrivare stanchi e stremati nel motel dopo ore trascorse al volante (o accanto, come nel mio caso), ma se c’è una cosa che nessun altro tipo di viaggio potrà mai darti quanto un on the road è il senso di libertà assoluta.
Non credo sarò mai in grado di trasformare in parole l’emozione che ho provato quando mi sono trovata di fronte ai cartelli di inizio e fine della Route 66, non pensavo che realizzare un sogno potesse equivalere ad un pugno nello stomaco. Positivo certo, ma davvero tanto forte.
Avrei voluto cancellare tutti i passanti e sedermi sul marciapiede ad osservare le insegne perché, per me che sono troppo emotiva e mi commuovo anche per una cavolata, quei momenti sono stati qualcosa di incredibile. Ho interpretato sia l’inizio che la fine come traguardi, in entrambi i casi il pensiero è stato il medesimo: sono qui, ce l’ho fatta.
Il terzo tassello è quello della routine.
Un viaggio in America di un mese, per forza di cose, ti costringe ad adottare dei ritmi particolari ai quali si accoda uno stravolgimento delle abitudini di casa e l’adozione di nuove prassi. Quello che non racconti è il supermercato di periferia, le insalate mangiate nel parcheggio con l’aria condizionata a palla, i panini preparati prima di uscire, le colazioni improvvisate, il ghiaccio gratis dei motel e il refrigeratore che ti salva la vita e ti fa risparmiare un bel pò.
Gli autogrill, i caffè in formato gigante divisi e il chiedersi che giro stiano facendo i viaggiatori che incroci per pochi secondi, le volte in cui rimani quasi a secco ma poi compare una pompa di benzina in lontananza.
La playlist e le canzoni che danno un volume al paesaggio fuori dal finestrino, i motociclisti che ti salutano e il rendersi conto che si, la stai percorrendo davvero quella strada che sogni da tutta la vita.
Il quarto tassello invece lo occupano le diversità.
Credo di aver posato gli occhi, durante questo mese, su tutti i colori del mondo. Ho visto posti talmente tanto differenti tra loro da far credere che sia impossibile che si trovino a così poca distanza l’uno dall’altro. Sono passata dal deserto alla metropoli nel giro di poche ore, dalle strada sterrate a quelle piene di fast-food e motel, dal neon delle luci di Miami al mare di Exuma, che potresti seriamente passare una vita a contarne le sfumature di blu.
Ho dormito in hotel bellissimi e motel da film horror, ho mangiato bistecche in ristoranti rinomati e pasti improvvisati sul marciapiede di stazioni di benzina abbandonate. Mi sono emozionata di fronte a posti incredibili e ho storto il naso per quelli che mi hanno delusa.
Ma se dovessero chiedermi cosa cambierei del mio viaggio in America, ad occhi chiusi risponderei nulla, assolutamente nulla, neanche il terremoto a San Franciso, le strade sbagliate, i nervosismi dettati dalla stanchezza, gli alloggi tremendi.
Sono partita con il cuore pieno di curiosità, con gli occhi ansiosi di sbranare ogni centimetro di paesaggio.
Il viaggio non è solo piccoli momenti, certo, è anche luoghi celebri e metropoli da copertina. E’ vero, forse alcune cose non le racconterai mai a chi ti chiede “Com’è andata?”, forse alcune cose resteranno per sempre tra te e il tuo compagno di viaggio, tra le cinque porte di un’auto, forse a nessuno interessa di panini e motel e pompe di benzina.
Ma quando vivi qualcosa tanto intensamente, sono anche i dettagli che non si possono immortalare a fare la differenza.
Ho superato alcuni miei limiti (esistono per questo, giusto?), ho riso un sacco, ho riso di pancia.
Cercavo delle risposte e il mio viaggio in America me le ha date, ora non mi resta che trovare una soluzione alle nuove domande che ho messo in valigia.
Ho imparato a ribaltare gli imprevisti e per ultimo, ma non meno importante, sono tornata a casa senza rimpianti.
Com’è andata? Benissimo, decisamente benissimo.
Non avevo dubbi sulla risposta alla classica domanda “come è andata??”, infatti ieri ti ho chiesto “come è stato il rientro?”… Perché quando si realizzano i sogni, quando si fa un viaggio desiderato il problema è proprio il rientro… quando ti ritrovi a fare i conti con tutto quello che hai visto, desiderato, amato, odiato. E’ sempre triste ma felice il rientro, le tue parole ne sono la conferma, così come il ricordo che avrete delle persone incontrate, dei colori, della diversità e LA STRADA. Quando ci vedremo, perché ci incontreremo io e te, ti chiederò di quei meravigliosi panini mangiati a bordo strada, devo aver avuto sicuramente un sapore diverso da tutti gli altri mangiati nella tua vita! 🙂 un abbraccione Mari!
Grazie Ale <3
Non vedo l'ora di incontrarti di persona.. ci saranno tanti "panini" di cui parlare :* :*
Bellissime parole. Non posso che essere d’accordo con te su tutta la linea. Ho rivissuto tramite le tue parole la bellezza, il senso di libertà, la disponibilità delle persone, la diversità dei luoghi, l’idea che tutto si può fare e che siamo tutti cittadini del mondo, sensazioni che solo l’America ti può trasmettere. Io tornerò presto, in un modo o nell’altro. Cristina
Lo dicono tutti: una volta che vai poi non puoi fare a meno di tornare 🙂 <3
Grazie Cristina!
Questo è il VIAGGIO.
Bellissimo leggerti e divorare i tuoi tasselli meravigliosi (la strada ^.^)
Per quanto riguarda il “come è andata?”, beh, per me è lo stesso.
Rispondo con un banalissimo “benissimo” non perché non abbia molto da dire, ma perché ci sarebbe troppo da raccontare.. e va a finire che quel troppo può prendere forma solo nel blog.
Bentornata Marikuzza!
Abbiamo bisogno di pesare le parole, noi!
Grazie tesoro <3 :*
Bellissimo post davvero.
Anche io rispondo sempre “benissimo” anche perchè è difficile raccontare un viaggio se non si è fatto.
Grazie Erika! 🙂
Come darti torto?
La risposta è sempre unica: benissimo.
Poi, tutto ciò che quella parola racchiude resta nel cuore, nelle poche orecchie che vogliono davvero sentirlo e tra le righe dei nostri blog.
Mi convinco sempre più, leggendoti, che davvero questo è il viaggio per eccellenza!
Grazie Lucy 🙂
Si, è un viaggio che riesce a darti “quel qualcosa in più” :*
Bellissimo!!
E’ proprio vero, i viaggi sono fatti di molto di più di quello che si racconta, dei posti visitati e di quelle informazioni che si trovano sulle guide turistiche: ci sono le cose che ti capitano, le persone che incontri, i pensieri che emergono e le emozioni che i luoghi ti suscitano – tutte cose solo tue, tutte cose che trasformano il tuo viaggio in qualcosa di vero, di vissuto, qualcosa che porterai sempre con te e che, un po’, ti avrà cambiata.
E sì, “benissimo” è riduttivo… ma a volte per descrivere le cose belle le parole sembrano non bastare mai!
Non basterebbero tutte le parole del mondo, mi sa! 🙂
Grazie Serena!
Ti ho seguita in questo viaggio, tanto che quando non vedevo tuoi aggiornamenti li andavo a cercare (una stalker!! 😉 ) ma mi hai appassionata con le tue cartoline e commenti.. E capisco benissimo il “benissimo”, è sempre cosi, non si possono dire in altro modo tante emozioni ed aneddoti così ci si riduce ad una parola.. Ci vuole tempo anche, per fare chiaro sull’esperienza..
Io intanto non vedo l’ora di leggere i tuoi post!
Un abbraccio!
ehehehe, grazie Elisa!
Ti abbraccio!
Mammamia che magone, Marika!
Nel senso che io sono tornata più di quattro mesi fa ed ho ancora una nostalgia maledetta! Il tuo post mi ha fatta sentire come se fossi tornata ieri, è bellissimo 🙂
Ed hai ragione su tutto..si dice che è andato tutto benissimo, si racconta dei posti più famosi, dei siparietti buffi, della disavventura. Ricordo una serata a parlare con la mia migliore amica in cui le cose più belle non sono uscite fuori. Si raccontano i posti visti, ma il viaggio è altro! Io quella macchina non la scorderò mai, nè i pranzi a patatine e crackers perché eravamo in ritardo sulla tabella di marcia e non avevamo il tempo di fermarsi. Nè mi scorderò la cena allo shop del benzinaio a Panguitch, perché non c’era un ristorante aperto.
Grazie perché condividi queste cose e mantieni vivi i ricordi non soltanto tuoi 🙂
Ehehehe, ci sono cose che può capire solo chi ha viaggiato on the road negli Stati Uniti. Alcune situazioni che a ripensarci sembrano davvero paradossali! 😀
un bacione :*
Che bello leggere il tuo post cge racchiude tante pensieri condivisi e svela un viaggio splendido che seguendoti, mi sono convinta di voler fare perché mi sono emozionata con le tue foto e i tuoi racconti!
Che bello essere stata d’ispirazione <3 te lo auguro tanto!
Un bacione
Ciao Marika, é la prima volta che commento un tuo post, ma passo spesso da queste parti! In quello che hai scritto mi ci rivedo tanto, l’ ho scritto anche nella presentazione del mio blog. Per andare oltre il “benissimo”, dopo tanti dubbi ed indecisioni,ho aperto il mio blog un po’ sconclusionato proprio come me! Poi non c’è niente da fare…i momenti più belli sono quelli che non si raccontano, che lasciamo un po’ a metà tra le pagine del web e quelle del cuore.
Grazie mille Valentina!
Sei come me: hai bisogno di scriverle 🙂
un abbraccio
Articolo stupendo, mi sono emozionata! Da pelle d’oca….
Ciao Marika, ti ho letto stamattina e non ho potuto non commentare a questo tuo post. Sono tornata anch’io da pochissimo da un viaggio on the road, 6500 km in Scandinavia, Norvegia-Finlandia e Svezia fino a Capo Nord in 13 giorni!!! L’ambientazione è inevitabilmente diversa dalla tua, ma CAPISCO PERFETTAMENTE TUTTO quello che hai scritto… dalle colazioni improvvisate con torta/brioches del supermercato e caffè lunghissimi nei bicchieroni to-go, dai panini preparati prima di partire o addirittura imbottiti direttamente in macchina, dalla sensazione di essere ormai diventata un tutt’uno con il sedile dell’auto a noleggio…fino e soprattutto alla sensazione unica di libertà che solo un viaggio così ti regala! La route è uno dei nostri sogni e spero di avverarlo presto, magari anche grazie ai tuoi consigli!
Se ti va, fai un giro sul mio blog neonato (postofinestrino.wordpress.com)… magari ti riparte subito la voglia di un viaggio on the road a latitudini completamente diverse!
Mi ero persa questo post!!
Che dire?? Nemmeno qui, a pensare al tuo viaggio, mi escono le parole.
Ti seguivo e dicevo a Diego “Hai visto dove sono?” e mi hai fatto maledire ogni giorni per non aver prenotato un nuovo viaggio negli USA 😀 cosa posso farci, al cuor non si comanda eheheh!!
Vediamo se tra qualche giorno cambio idea!
Comunque sono come te, anche io dico sempre “benissimo!” e poi non racconto più molto perchè i ricordi e le emozioni strette sono ancorate in fondo, e a dire la verità poi qualcuno si stufa anche se inizio a parlare di viaggi 🙂
Post super!!
[…] Non è sempre facile rendere l’idea attraverso uno schermo, ci saranno comunque delle cose non dette, ma io auguro a tutti di vivere ciò che ho vissuto io. Durante i trenta giorni passati on the road […]
Ciao Marika, leggo solo ora questo tuo post.
L’ho trovato così vero, così “umano” che sembra quasi ovvietà.
Ci sono dei viaggi che non ti preparano a quello che racconterai quando tornerai a casa. Sono esperienze di vita che non si possono raccontare, solo vivere. Chi non prova non capisce; non può capirlo. A volte non lo comprende fino in fondo neanche chi su quell’auto, in quelle strade, in quei supermercatini c’era davvero.
Guardi il tuo compagno di viaggio (come nel tuo caso, il mio è anche il mio compagno di vita) e sai che solo lui può immaginare quello che la domanda “allora, com’è andata?” evoca.
E trovo che sia una cosa pazzesca, la vera ricchezza che ci portiamo dentro.
E ogni volta trovo che cresciamo un po’ di più e diventiamo davvero grandi.
Un abbraccio,
Elena